Denuncia il marito per maltrattamenti ma ha firmato un contratto di schiavitù: chi ha ragione?
31 Agosto 2012 di Redazione
Una commessa padovana ha denunciato il marito per maltrattamenti e lo ha buttato fuori di casa. La notizia è di ieri, e sembrerebbe identica alle tante storie di violenza sulle donne che purtroppo ascoltiamo troppo spesso al telegiornale, se non fosse per la natura particolare del rapporto che vede protagonista i due ex coniugi.
La donna infatti aveva firmato uno Slave Contract, cioè un contratto di schiavitù che nei rapporti BDSM crea un legame di appartenenza tra padrone e schiava. Un legame molto profondo e di natura consensuale, tanto che nel contratto veniva indicata anche una Safe Word, una parola di salvezza che segna la fine del gioco erotico se il Padrone supera certi limiti.
L’autorità giudiziaria perciò dovrà verificare come stanno i fatti, se il particolare rapporto dei due coniugi rientrava nel modo di vivere l’intimità di coppia oppure se il marito sia colpevole di comportamenti criminali. Nel frattempo è meglio fare chiarezza su cosa è, ma soprattutto cosa non è un contratto di schiavitù.
Il contratto di schiavitù NON È un contratto formale, ma rientra nella categoria dei giochi erotici di stampo sadomaso, tanto che utilizza una terminologia tipica del gioco di ruolo.
Su Cooletto abbiamo riportato, con il permesso del Master, un esempio di Slave Contract, un contratto di schiavitù che sancisce l’accordo tra Padrone e schiava. Ma è un contratto solo per modo di dire, perché una slave è schiava per finta. Ripeto, è solo un gioco. Nel contratto di schiavitù non c’è nessun impegno di tipo coercitivo e la schiava può recedere quando vuole.
Il sadomaso è solo un’altra forma di sessualità che si sviluppa tra persone adulte e consenzienti, ed è molto praticata anche in Italia, senza arrecare danno alcuno.
Naturalmente ogni storia è una storia a sé e – lo ripetiamo – sta alle autorità approfondire tutti gli aspetti della vicenda e decidere chi dei due ha ragione, se un simile accordo sia frutto di un plagio, come riportato dai giornali, o se la denuncia sia solo l’ultimo colpo di scena di un brutto divorzio.
Intanto vediamo di non fare di tutta l’erba un fascio, ed evitiamo che la community BDSM diventi il bersaglio di una nuova, quanto inutile, polemica.
Cosa penso a riguardo...
Questo articolo mette in luce un punto fondamentale che spesso viene frainteso: il confine tra gioco consensuale e violenza reale.
Il contratto di schiavitù, per quanto possa sembrare vincolante a chi lo legge dall’esterno, è in realtà uno strumento simbolico. Non ha valore legale, né potrebbe mai averne. È un patto psicologico, erotico e relazionale tra due adulti consenzienti, che serve a stabilire regole, confini e rituali all’interno di una dinamica di dominazione.
Eppure, proprio perché è un gioco di potere, la differenza la fa la fiducia. Se viene meno la comunicazione, se uno dei due oltrepassa i limiti concordati, se la safe word non viene rispettata, allora non siamo più nel BDSM ma nella violenza domestica.
Chi vive realmente queste dinamiche lo sa bene:
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il collare non è una catena legale, è un simbolo;
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il contratto non è un vincolo giuridico, ma un patto intimo;
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la disciplina non è abuso, è gioco di ruoli.
La vera schiavitù nel BDSM è sempre consensuale, reversibile e negoziata. Quando mancano questi tre elementi, ciò che resta non è più Dominazione, ma sopraffazione.
Questo caso, per quanto triste, non deve diventare un pretesto per gettare fango su tutta la comunità. Dovrebbe piuttosto ricordare a chi gioca seriamente l’importanza di costruire rapporti basati su fiducia, rispetto e sicurezza.
Perché la differenza tra gioco e abuso è sottile solo agli occhi di chi non la conosce: per chi vive davvero il BDSM, quella differenza è tutto.
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